Nel mio Sudafrica serve una vera riconciliazione
Intervista al Cardinale Wilfrid Napier
Un processo di democratizzazione lento e difficile sostenuto dal forte dialogo tra le religioni. A raccontare cosa è cambiato nel Paese che 20 anni fa ha sconfitto l’apartheid, è il cardinale Wilfrid Napier, arcivescovo di Durban e presidente della Conferenza episcopale di Botswana, Sudafrica e Swaziland che domani (ore 20.30 sede di Sant’Agostino in Città Alta) sarà ospite di un incontro promosso dall’Università di Bergamo in collaborazione con la onlus Domitilla Rota Hyams.
A che punto è il processo di integrazione?
«Direi che è un problema risolto tra le nuove generazioni, soprattutto nelle scuole, tra i più piccoli. Sono loro che poi coinvolgono nel processo anche i genitori. E anche nel mondo del lavoro le cose sono cambiate, le persone di colore hanno ruoli di responsabilità e cresce tra loro il numero di chi è impiegato negli uffici e non solo in lavori umili».
E nelle istituzioni cosa succede?
«Il percorso è molto più lento. Si tendono a privilegiare amicizie e interessi personali. In via di principio l’integrazione è considerato ormai un valore acquisito, la difficoltà sta nel vederla concretizzata ovunque».
Qual è stato il ruolo della Chiesa in questi 20 anni?
«Credo che da un punto di vista politico sia stato fondamentale soprattutto tra il 1990 e il 1994. Quando la Chiesa ha sostenuto Nelson Mandela e i movimenti di liberazione. E mi riferisco a tutte le chiese principali del Sud Africa non solo cattolici, ma anche protestanti, anglicani, metodisti, musulmani, induisti che insieme hanno condiviso il superamento dell’apartheid attraverso il dialogo e la non violenza».
E poi?
«Poi, dopo le prime elezioni libere, quando tutto il popolo ha potuto votare, abbiamo fatto un passo indietro, anzi due. E’ compito dei cittadini contribuire allo sviluppo della democrazia nel proprio Paese. E ci sono stati buoni risultati come l’equiparazione di stipendi e pensioni tra bianchi e neri e gli interventi nel sociale. Una questione questa da cui ovviamente la Chiesa non si ritirerà mai. Però ci sono ancora tanti limiti».
Quali?
«E’ mancata una vera e propria fase di riconciliazione tra la popolazione bianca e quella nera. Non sono stati creati gli strumenti per attuarla».
Mercoledì il Sud Africa post Mandela, tornerà a votare, quali sono le speranze della Chiesa?
«Che siano in tanti a farlo. C’è da un lato il rischio di assenteismo perché in passato molte promesse sono state fatte dal governo, ma poi non rispettate. E dall’altro il rischio che i cittadini continuino a votare per i partiti che sono abituati a sostenere tradizionalmente e non valutino invece i programmi, l’impegno di chi opera per il bene comune. In ogni caso mi auguro che nessuno schieramento superi la maggioranza dei due terzi: potrebbe lasciarsi tentare dalla possibilità di modificare la Costituzione per cercare di ridurre il potere degli organi che controllano il governo».
Questo modello di democrazia è esportabile anche in altri Stati del continente africano?
«È ancora incompiuta, certo, ma molti Paesi come Swaziland, Congo, Angola e Sudan stanno guardando con interesse alla nostra esperienza».
Di che priorità dovrà occuparsi il nuovo governo?
«La povertà. Il Sudafrica è il Paese che presenta il coefficiente differenziale più alto tra ricchi e poveri. Prima del 1994 i ricchi erano bianchi e i neri poveri. Adesso in cima sono arrivati anche parecchi neri. Ma il cancro del nostro sistema è la corruzione che non guarda al colore di nessuno. Con il governo di unità nazionale, fino alla fine degli anni ’90, i due schieramenti si controllavano a vicenda. Poi è esplosa».
Quale sarà nei prossimi anni il ruolo della Chiesa cattolica in Sudafrica?
«Credo che la forza della Chiesa sia stata e sarà nella sua capacità di ricercare un dialogo costante tra tutte le religioni. Adesso ci stiamo impegnando su progetti comuni contro la corruzione, a cominciare dall’educazione delle coscienze».
Realtà di volontariato come la onlus Domitilla Rota Hyams, cosa rappresentano per il suo Paese?
«Sono fondamentali. Grazie a loro si sono potuti sviluppare percorsi soprattutto per quanto riguarda la lotta all’Aids e l’educazione scolastica. Dal sociale la Chiesa non si è mai ritirata, ma i progetti non sarebbero potuti andare avanti senza i volontari».
Papa Francesco, che lei ha incontrato in questi giorni, è una speranza per l’Africa?
«Il suo messaggio, che si concretizza anche nel modello di vita semplice e modesta, è un esempio per tutti. Anzi una sfida, che i vertici della Chiesa per primi dovrebbero cogliere».
Mariagrazia Mazzoleni [da L'Eco di Bergamo del 5 maggio 2014]